Dio cambia il mondo attraverso il mondo dei piccoli e dei poveri.

Intervento di Mons. Gianpiero Palmieri all’incontro con i volontari delle Caritas di S. Benedetto del Tronto, Ascoli Piceno e Ancona- Osimo

Abbiamo la possibilità di prepararci all’anno che comincia, sentendo che il Signore vuole darci le energie dello Spirito santo per poterlo affrontare. Vorrei riflettere con voi in modo particolare sul nostro servizio alla luce del messaggio del Papa per la giornata dei poveri 2024, che quest’anno s’intitola: “La preghiera del povero sale fino a Dio”, come dice un versetto del libro del Siracide (21,5)

Il tema è “poveri e preghiera” e il Papa, per riflettere insieme sulla condizione di povertà, sottolinea che la preghiera del povero sale fino a Dio. È bello notare che Dio ascolta tutta la preghiera, tutte le preghiere e le preghiere di tutti, ma c’è una preghiera particolarmente efficace, che arriva fino al cuore di Dio e lo trova particolarmente disponibile ad ascoltare. È, appunto, la preghiera del povero, capace di trapassare il cielo e di arrivare fino a Dio, sapendo già che il suo cuore è particolarmente predisposto ad accoglierla.

Vorrei fare una premessa per definire “cosa” è il povero.

Chi sono i poveri secondo la Bibbia? Faccio mia la sintesi che ho trovato nel libro postumo del biblista francese Dominique Barthélemy “Il povero scelto come Signore” (ed. Qjqajon), un titolo che rappresenta molto bene il contenuto. Il tema della povertà è molto forte e significativo per la Bibbia e farne una sintesi è una cosa notevole. Nella Bibbia i poveri  in ebraico si chiamano anawîm – sono una categoria particolarmente importante; potremmo dire che Dio non fa niente senza il popolo degli anawîm e quindi vale la pena rifletterci: noi in realtà non serviamo i poveri, ma abbiamo la possibilità di diventare poveri e questo cambia tutto. Noi non facciamo servizio a una categoria bisognosa di aiuto, piuttosto ci confrontiamo tutti i giorni con qualcuno che ci ricorda, tutti i giorni, quello che siamo chiamati a diventare: anawîm anche noi. La povertà è dunque una categoria teologica esistenziale, profonda, a cui tutti siamo chiamati e, ripeto, è un po’ difficile servire i poveri senza essere diventati poveri.

Cominciamo considerando i quattro elementi che caratterizzano il popolo dei poveri secondo Barthélemy:

1. Il popolo dei piccoli e dei poveri nel mondo biblico ha la caratteristica di essere un popolo di invisibili per gli altri uomini ma visibili per Dio, proprio perché non hanno né ricchezza né prestigio né sono particolarmente importanti o sapienti. Per esempio San Paolo, all’inizio della Lettera ai Corinzi (1,26) guarda la comunità di Corinto e dice: “Fratelli miei, considerate la vostra chiamata; guardatevi un po’, non ci sono tra voi molti potenti – e io mi immagino i corinti scuotere la testa in diniego – non ci sono molti sapienti, non ci sono molti nobili, ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole, insipiente, ignobile e disprezzato per salvare il mondo”. Agli occhi di Dio esistono eccome i poveri, hanno un posto privilegiato nel suo cuore, ma spesso agli occhi degli uomini non sono particolarmente invisibili, sono anawîm. Inoltre per san Paolo dire che Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole, insipiente e ignobile, è dire Gesù, che ha scelto di diventare insipiente, ignobile e debole. Gesù ha scelto la croce per salvare il mondo. Dio si è fatto anawîm, membro del popolo dei poveri, forse il più povero di tutti.

2.I poveri hanno imparato a fidarsi di Dio più che di se stessi. Gli anawîm non hanno altro che Dio, non possono contare né su qualità né su possessi personali. Un bellissimo testo dice che soltanto i poveri conoscono il segreto della speranza, dal momento che soltanto loro tutti i giorni sperano, proprio perché non hanno a disposizione quello che è necessario tutti i giorni per vivere. È davvero un elemento caratteristico: i poveri sulla loro stessa pelle, sulla loro stessa vita, hanno imparato a fidarsi di Dio più che di se stessi.

3.Dentro il loro mondo interiore c’è tanto spazio per Dio e per gli altri, il loro Io non è così gigantesco da occupare tutto lo spazio. Il nostro Io può diventare così gigantesco perché abbiamo a cuore soltanto una cosa: IO, invece il popolo dei piccoli e dei poveri ha tanto spazio dentro il proprio mondo interiore per Dio e per gli Altri; il loro Io ha imparato a diventare piccolo. Noi sappiamo bene cosa può significare quando l’io diventa troppo ingombrante. A questo proposito vi voglio ricordare la bellissima preghiera di S. Thomas Moore, il primo ministro del re d’Inghilterra, chiamata a volte la preghiera del buon umore. È un’antica preghiera del 1500 che il Papa ha fatto recitare quando ha incontrato i comici, in cui in sostanza Thomas Moore, che da primo ministro è in carcere, inizia dicendo: “Signore dammi uno stomaco buono e possibilmente anche qualcosa da mangiare…”. Poi prosegue: “aiutami, insegnami a non prendere troppo sul serio quell’amico interiore e troppo ingombrante che si chiama IO, aiutami a saper relativizzare i miei stati d’animo o quello che mi capita, a non darmi troppa importanza…”. Un padre spirituale racconta di una religiosa che lo ringraziava dopo gli esercizi spirituali per aver potuto rimettere al centro della sua vita il Signore; lui le rispose, senza pietà, che Dio era già al centro, ma era il suo io a doversi fare un po’ da parte. Ritorniamo ai poveri: non sono ossessionati da se stessi, non sono persone che davanti a un racconto reagiscono subito riportando a sé (“eh sì perché io…”). La tentazione che il nostro io diventi gigantesco c’è sempre, invece il cammino spirituale spesso non è nient’altro che un ridimensionamento del proprio io e tra l’altro proprio quando lo ridimensioni lo trovi veramente. Il povero, quindi, è uno che non prende troppo sul serio il proprio io.

4.Quarta e ultima pennellata: i poveri sono consapevoli che Dio vuole cambiare il mondo attraverso di loro, attraverso il mondo dei piccoli. È una scelta libera di Dio nel suo sovrano beneplacito. Poteva fare diversamente forse, ma ha deciso così. Questo significa che finché non ci facciamo piccoli e poveri non siamo utili a Dio. Il cammello deve passare attraverso la cruna dell’ago, se no risulta inutile per Dio. Possiamo essere belli, intelligenti, sapere tante cose, finché però non sappiamo di essere del popolo dei piccoli e dei poveri, non solo con la testa ma nella profonda convinzione del cuore, non gli serviamo, perché Dio ha deciso di cambiare il mondo con il popolo dei piccoli e dei poveri. Senza di loro non si fa niente. Questo tema nel vangelo è costante. Tutti quelli che si presentano a Gesù con l’atteggiamento di chi ha qualcosa, come il giovane ricco, di chi sa qualcosa o ha potere, vengono ricondotti alla misura della piccolezza. Possono, come Pilato, gridare: non mi parli? Non sai che ho il potere? E Gesù, come con Pilato, li riporta alla sua vera realtà. Potere, possesso, fama, nobiltà… tutti riportati alla loro vera misura: tutti invitati a far parte del popolo dei piccoli e dei poveri attraverso il quale Dio vuole cambiare il mondo.

Dopo questa premessa proviamo a entrare nel nostro servizio di Caritas. Io sento un’esigenza forte, che nasce anche dalla mia esperienza che mi fa chiedere: cosa aggiunge essere volontari Caritas rispetto a fare lo stesso servizio in altri contesti? Perché essere Caritas invece di essere membri di una ONG, di un’associazione? Ce ne sono tante meritorie, il tema della povertà nel nostro territorio è affrontato non soltanto da Caritas, ma coinvolge tante persone e associazioni nate per questo. È molto bello quando presentiamo i dati Caritas e sappiamo anche perché sono particolarmente attendibili e interessanti: tutti vengono al centro d’ascolto Caritas mentre non tutti vanno ai servizi sociali. Come stile collaboriamo con tutte le associazioni e le realtà del terzo settore che si occupano di poveri. Siamo felici di tutti e del servizio di tutti, però ci chiediamo: perché far parte della Caritas, cosa ci dà di più? Qui è in gioco non tanto un certo tipo di operatività, ma la spiritualità con cui facciamo tutte le cose, cioè il nostro mondo interiore; è in gioco chi siamo noi, non la qualità o la quantità del servizio che facciamo. Qual è la qualità, profonda questa volta però, del servizio che facciamo, la spiritualità che ci abita nel momento in cui ci occupiamo delle tante forme di povertà con cui entriamo in contatto?

Io provo a evidenziare tre elementi in questa nostra riflessione, voi potrete aggiungerne altri. La prima cosa che sento il bisogno di dire è che in un certo senso la spiritualità cristiana ci aiuta ad avvicinarci all’altro come a un mistero e questo se mi permettete fa un po’ di differenza. Cosa significa? Noi sappiamo e parliamo di mistero di Dio, che nel linguaggio biblico e teologico è una realtà che non si conosce ma che si rivela. Normalmente quando parliamo di una cosa misteriosa pensiamo a una cosa che non si conosce, che non sappiamo, mentre nella bibbia è esattamente il contrario, è una cosa che non si conosceva e che si mostra, che non vedevo e adesso vedo. Il mistero di Dio rimane tanto grande rispetto alle capacità umane, però si rivela non in una dottrina o in un manuale, ma in un volto, in una persona che è Gesù; si rivela continuamente nella storia dell’umanità per mezzo dello Spirito santo, ma in modo particolare impersona se stesso in Gesù. Se Dio si è fatto uomo e ha rivelato il suo mistero è anche perché vuole dirci che ogni uomo è un mistero; un mistero abitato da Dio è lo Spirito santo.

Tutte le volte che incontro i ragazzi che si preparano alla cresima, i loro genitori, i loro padrini e madrine chiedo: da quando lo Spirito santo è dentro di voi? Non mi dite anche voi dal battesimo! Lo Spirito santo è presente in tutti noi dal momento in cui veniamo al mondo; il battesimo ci incorpora a Cristo risorto e a tutta la Chiesa ma non c’è cuore umano dove non agisca lo Spirito santo.  San Paolo nei primi capitoli della Lettera ai Romani dice che gli ebrei hanno la Torah, i cristiani la parola di Gesù e i pagani la parola dello Spirito santo nel cuore che si fa sentire nella loro coscienza. I padri della Chiesa dicevano ancora che l’uomo è corpo, è anima e Spirito santo nello spirito umano.

Allora l’uomo è un mistero, non solo Dio, e proprio perché abbiamo questa fede, quando ci avviciniamo a un uomo dobbiamo toglierci i calzari, perché siamo davanti al mistero santo dell’altro. Non stiamo a mettere etichette: il fatto di individuare o riconoscere la condizione di una persona che ho davanti da alcuni elementi, non significa che ho capito tutto e può anche darsi che io non abbia capito niente, perché non so nulla di quella storia finché la persona non me la racconta. E anche quando me l’ha raccontata spesso lo ha fatto a modo suo, perché magari ha avuto il pudore di non dirmi certe cose. La spiritualità cristiana aggiunge questa profonda convinzione: Dio è dentro di me e dentro l’altro che quindi rimane un mistero. Ci troviamo sempre di fronte a questa fatica, però è molto importante viverla.

Voi sapete che quando Papa Francesco incontra i carcerati inevitabilmente dice una frase: “io non so perché voi siete lì e io sono qui”. Si capisce quello che vuole dire il Papa: l’altro è un mistero, io mi tolgo i sandali. Non so per quale motivo la vita l’abbia portato in quella situazione e quanta responsabilità ci sia o meno, ma sto attento a emettere giudizi, a fare confronti fra me e l’altro.

Vi racconto un’esperienza dolorosa. Una volta a Roma un volontario Caritas della mia parrocchia finisce nella ludopatia. Voi sapete che queste sale giochi a Roma si sono moltiplicate all’inverosimile e dietro ci sono organizzazioni criminali (a Roma il 17% degli adolescenti è ludopatico). Quest’uomo si giocava i soldi con cui doveva pagare l’affitto, in arretrato ormai da un anno, finché ad una vincita riesce a portare due o tre mensilità arretrate. La proprietaria gli dice di aver scoperto perché non aveva pagato fino ad allora e che lo avrebbe detto alla moglie e ai tre figli. Lui perde il lume della ragione e spinge la signora anziana, morta sul colpo. Per questo mi limito a togliermi i sandali.

Forse altre realtà non hanno questa comprensione dell’altro come mistero, magari sono anche migliori di tanti volontari Caritas, però il volontario Caritas tiene nel cuore questa dimensione di spiritualità, non ci rinuncia.

Il secondo aspetto che volevo sottolineare e che ci aggiunge la spiritualità cristiana è la sua dimensione cristologica ed ecclesiale.  È talmente tanto un mistero l’altro che quando lo incontro, io so dal vangelo che è il Signore che mi sta incontrando. “Ma quando mai ti abbiamo incontrato? Tutte le volte che hai dato da mangiare, da bere e da vestire, tu l’hai fatto a me”. Il Signore Gesù mi viene incontro in tanti modi, con la Parola, con i sacramenti, ma anche attraverso un sacramento che è il povero. Il povero scelto come Signore: tu scegli di incontrarlo e quando ciò avviene è il Signore che incontra te. L’esempio tipico è San Francesco, che non ha baciato il lebbroso perché è bravo, ma si è sentito baciato da Gesù attraverso il lebbroso. È Gesù che mi viene incontro attraverso il povero e mi aiuta a superare i miei egoismi, a venir fuori dai miei deliri dell’Io, dal mio senso di superiorità. Questa è la dimensione cristologica. L’altra dimensione è quella ecclesiale, molto importante per noi volontari Caritas. Noi agiamo come Chiesa, non da soli ma come comunità cristiana. Io so che quando sto nel centro d’ascolto Caritas, io sono gli occhi, le mani, la voce, le orecchie del Signore e della Chiesa. Voi sapete che Caritas è sempre stata una dimensione della vita ecclesiale, non ha mai voluto essere un ufficio o un’associazione, ma solo e soltanto Chiesa Cattolica. Questo perché deve essere chiaro che noi qui siamo la Chiesa, cioè il corpo di Cristo che si rende visibile per questa persona determinata. Non agiamo mai a titolo personale e per questo sono particolarmente faticose le tensioni ecclesiali, perché noi dovremmo agire come corpo, l’unico corpo di Cristo che ci prende e ci fa diventare il suo corpo fin dal battesimo. Ce lo ricordiamo tutte le settimane nell’eucaristia. Papa Benedetto sottolineava sempre che non siamo noi a ricevere il corpo di Cristo nelle mani, ma è Cristo che ci prende, ci fa diventare una sola cosa con sé e ci dice: “adesso vai nel mondo che tu sei me”. Quando sono nella mia attività Caritas, io sono con Cristo e con la Chiesa, do corpo al corpo di Cristo nel mondo. Una dimensione profondissima.

Il terzo e ultimo punto è una ripresa di quello che abbiamo detto prima, ma vorrei aggiungere qualcosa sull’essere Chiesa. Papa Francesco sottolinea che molte persone povere non hanno bisogno prima di tutto di cibo e in effetti cosa emerge dai nostri ascolti al Centro D’Ascolto? Quello di cui hanno bisogno è il superamento della solitudine: se il mio problema non lo affronto più da solo e tu nemmeno me lo risolvi, ma ti metti a fianco a me per affrontarlo e risolverlo insieme, il più è fatto. Quello che noi offriamo ai poveri non è soltanto un servizio, ma una comunità; il Papa dice che è brutto quando la Chiesa offre servizi e non se stessa, quando tiene lontani i poveri dalla propria assemblea liturgica, dai momenti della catechesi, dalla propria vita! Sì, li serve ma li tiene lontani, mentre invece noi agiamo come Chiesa e quello che offriamo prima di tutto è una famiglia, la Chiesa. Sempre da una delle mie esperienze romane, ricordo un giovane Rom che scopre di avere un tumore; era completamente solo, si era trasferito da poco lasciando la Bulgaria e la parrocchia in quell’occasione è stata la sua famiglia, lo ha accompagnato fino alla morte. Faceva il parrucchiere e voleva ricambiare in qualche modo, così la gente capiva di dover andare da lui, sia perché era bravo sia perché potesse mantenere la sua dignità fino alla fine.

Eccoci all’ultimo punto. Nella nostra spiritualità cristiana, noi davvero crediamo che Dio cambia il mondo con il popolo dei ricchi e dei poveri, siamo convinti che noi e i nostri interlocutori insieme possiamo cambiare il mondo. Senz’altro Dio punta a questo, per cui la cosa più seria che possiamo fare è diventare poveri, cioè essere capaci di ridimensionarci per poter essere più agili e leggeri nelle mani di Dio. L’interpretazione più corretta di “beati i poveri in Spirito” infatti, è proprio beati quelli che rimpiccioliscono il proprio Io per essere più disponibili a seguire lo Spirito, beati i poveri per lo Spirito. È la sensibilità di chi riconosce il primato di Dio, Signore nella propria vita e per questo si fa povero per seguire le indicazioni dello Spirito. Dio cambia il mondo attraverso queste persone.

Elsa Morante una volta ha scritto una cantata bellissima: “la cantata dei felici pochi”. Diceva che il mondo ha pochi felici, mentre ci sono gli infelici molti. I felici pochi sono quelli che hanno scoperto il segreto evangelico della povertà e della piccolezza, gli infelici molti sono tutti gli altri, quelli che puntano al successo, al potere e ai soldi. Dio cambia il mondo, e in questa cantata lei scriveva “il mondo salvato dai bambini”; Dio salva il mondo quando gli infelici molti si trasformano in felici pochi.

Questa profonda convinzione, secondo me facciamo fatica ad averla, perchè abitualmente pensiamo di seguire il regno di Dio con le nostre qualità, con i nostri presunti punti di forza, talvolta anche con i nostri soldi, mentre al Signore interessa la nostra disponibilità a seguire lo Spirito per realizzare il Regno. Tutte le qualità che abbiamo diventano a servizio del nostro Io malato, se il nostro Io è malato, ma, se è sano e facciamo parte del popolo dei piccoli e dei poveri quello che siamo e quello che facciamo è a servizio del regno di Dio e non di noi stessi.

Dio cambia il mondo attraverso il mondo dei piccoli e dei poveri. Deve diventare una profonda convinzione del nostro cuore e quando incontriamo persone più vulnerabili dobbiamo sapere che insieme con loro possiamo fare grandi cose. L’altro con la sua fragilità è un appello che Dio rivolge a me per la mia conversione.

Concludendo, a me sembra che la spiritualità cristiana suggerisca al nostro agire queste tre profonde convinzioni, facendo così la differenza rispetto alla filantropia, al fare del bene perché poi così stiamo bene. È qualcosa di molto più profondo, uno sperimentare nell’avvicinamento ai poveri la ricchezza del mistero di Dio che abita in noi, nel mondo e nell’altro.