“La civiltà ha fatto un passo decisivo forse il passo decisivo,
il giorno in cui lo straniero, da nemico (hostis) è divenuto ospite (hospes) […].
Il giorno in cui nello straniero si riconoscerà un ospite,
allora qualcosa sarà mutato nel mondo”.
Jean Daniélou
La festa di Pentecoste, della venuta dello Spirito che è apertura e unità, è occasione per riflettere anche sulla “lettera alle comunità cristiane a 25 anni dal documento “Ero forestiero e mi avete accolto!” (1993-2018) , a cura della Commissione Episcopale per le Migrazioni della CEI.
Ciò che spinge i Vescovi italiani a prendere nuovamente la parola è “il profondo cambiamento che in questi anni continua a segnare il fenomeno migratorio nel nostro Paese, per rispondere nuovamente alla domanda del Signore a Caino, richiamata da papa Francesco nel suo viaggio a Lampedusa: “Dov’è tuo fratello?” (Gn 4,9)”.
Se gli immigrati in Italia hanno raggiunto e superato all’inizio del 2016 il numero di cinque milioni, con un’incidenza sulla popolazione totale pari all’8,3%, è pur vero che cinque milioni di italiani sono oggi emigranti nei diversi continenti alla ricerca di un lavoro e di una vita dignitosa. Alla fine del 2017 erano in accoglienza nel nostro Paese 183.681 richiedenti asilo e rifugiati – appena il 3 per mille dei residenti – mentre sono 124 mila il numero nell’ultimo anno gli italiani che hanno spostato la loro residenza oltreconfine.
Come Chiesa non possiamo non interrogarci di fronte alle numerose sfide poste dalle migrazioni contemporanee. Da una parte si deve riconoscere che esistono dei limiti nell’accoglienza, imposti da una reale possibilità di offrire condizioni abitative, di lavoro e di vita dignitose. Dall’altra è necessario ricordare che il primo diritto è quello di non dover essere costretti a lasciare la propria terra, cosa che chiede di porre rimedio ad alcuni dei fattori che ne motivano la partenza, come la guerra, la diseguaglianza sociale, la questione climatica.
Scrivono i vescovi: “La realtà del fenomeno, la sua complessità, le domande che suscita, chiedono alle nostre comunità di avviare “processi educativi” che vadano al di là dell’emergenza, verso l’edificazione di comunità accoglienti capaci di essere “segno” e “lievito” di una società plurale costruita sulla fraternità e sul rispetto dei diritti inalienabili di ogni persona”.
Si tratta innanzitutto di avere “uno sguardo profondo, uno sguardo capace di andare oltre letture superficiali o di comodo, uno sguardo che vada “più lontano” e cerchi di individuare il perché del fenomeno”.
Questo sguardo diverso di fronte a coloro che arrivano nel nostro paese, porta all’utilizzo di un linguaggio che non giudica e discrimina, prima ancora di incontrare. Passa per una giusta declinazione della diversità che fa superare la paura, anzi, le paure: la nostra e quella che prova lo straniero. Paure che, seppur legittime, possono essere eliminate solo nell’incontro e nell’intrecciare relazioni che generano, attraverso il dialogo, una conoscenza “simpatica” dell’altro. Punto di arrivo chiaramente è l’integrazione, “un processo che non assimila, non omologa, ma riconosce e valorizza le differenze; che ha come obiettivo la formazione di società plurali in cui vi è riconoscimento dei diritti, in cui è permessa la partecipazione attiva di tutti alla vita economica, produttiva, sociale, culturale e politica, avviando processi di cittadinanza e non soltanto di mera ospitalità”.
Grazie a questo sguardo contemplativo, prima ancora che politico, economico o sociologico, le nostre comunità usciranno dalla paura per diventare sempre più accoglienti. Non possiamo dimenticare l’importanza dell’ospitalità: «Alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Eb 13,2).